Paolo Speranza's blog

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A chi serve parlare di team building (2)?

Alle prime battute di una due-giorni di Team Building uno degli esercizi-gioco consiste nell’assumere la prospettiva altrui, in pratica nel mettersi dei panni dell’altro, che non sappiamo fisicamente chi sia tra i partecipanti. E’ un esercizio apparentemente semplice, in realtà per nulla, ed efficace per aprire la nostra mente alla consapevolezza. Ciò che emerge a volte è sorprendente.

Durante una recente due-giorni di corso, condividemmo l’esercizio-gioco al termine del quale, oltre ad un po’ di divertimento, calò un certo silenzio.

Su invito ad esprimersi, un membro del gruppo, Marta, disse di essere rimasta turbata dal fatto di scoprire gli altri avere problemi simili ai suoi, sebbene con sfumature e soggettività ovviamente diverse. Proprio questa similitudine le aveva facilitato il compito di assumere la prospettiva di una sconosciuta o uno sconosciuto.

“E’ vero che siamo diversi, ma non lo siamo poi così tanto. Tendiamo sempre a difenderci, pensando che gli altri siano migliori o non abbiano le nostre difficoltà, oppure tendiamo a pensare che gli altri siano più freddi e tutto per loro sia più facile che per noi. Beh, ho capito che non è così”.

Giovanni, un altro membro del gruppo, disse: “Sì, è vero. Tutto sommato, siamo in grado di assumere la prospettiva degli altri. Non è impossibile”.

Altre voci si unirono al piccolo coro: “Capire che noi siamo gli altri per gli altri è banale, forse, ma illuminante”. “Sì, qualsiasi gruppo di persone, di qualsiasi natura sia il gruppo, dovrebbe pensarci e tenerne conto”.

Marta riprese la sua riflessione: “E’ sconvolgente per me scoprire che gli altri mi vedono in modo diverso da come io penso di essere vista, di riconoscermi tratti e attitudini che io non attribuisco a me stessa. Cavoli, mi rendo conto di quanto allora possa essere inefficace la comunicazione tra noi. Gli altri parlano ad una persona che io non mi riconosco essere…Dai, questa cosa è sconvolgente!”

Le rispose Giovanni: “Credo che tutti noi qui fossimo convinti che tu sapessi come noi ti vediamo”

Un altro membro del gruppo, Marco: “Beh, adesso lo sappiamo, sarà sicuramente più facile capirsi”.

Si era aperta una breccia davvero importante. Il percorso per ognuno di noi si delineava davvero interessante, nelle poche giornate insieme, ma soprattutto nelle tante giornate personali della nostra vita.

A chi serve, quindi, parlare di Team Building? Nessuno meglio di ognuno di noi può rispondere a questa domanda.

Chi ha bisogno di cosa?

Era il 1954 quando Abraham Maslow concepì il concetto di Gerarchia dei Bisogni. Questo psicologo statunitense, scomparso nel 1970, è uno dei più citati psicologici della storia, proprio a causa di questa sua teoria che ha avuto così tanta eco.

Maslow, nel suo volume Motivazione e personalità,  teorizzò che esiste una scala dei bisogni degli esseri umani. Ogni gradino di questa scala è propedeutico al successivo e non è possibile raggiungere un livello superiore senza aver prima soddisfatto i bisogni del livello più basso.

Si tratta di una teoria che ha ormai oltre 60 anni e che è stata rivisitata in molti modi, sviluppata secondo diverse chiavi di lettura, modernizzata da diversi autorevoli studiosi. Però, nella sua “semplicità” ed essenza, ci fa capire moltissimo del nostro mondo. Ed è innovativa, anche nella sua vetustà apparente.

Sentiamo spesso dire, ad esempio, che “si era più felici quando si stava peggio”. Al netto dei risvolti nostalgici e delle peculiarità della nostra memoria, con i suoi meccanismi di disattenzione selettiva, io credo che la scala di Maslow risponda brillantemente a questa affermazione.

Quando i nostri bisogni sono quelli della sopravvivenza o della sicurezza (i primi due gradini della scala), la loro soddisfazione ci fa sentire felici. In quella condizione ci sembra impossibile, per una persona che non debba preoccuparsi più delle esigenze fondamentali, non sentire benessere. D’altro canto, soddisfatti quei bisogni, ne sorgono altri, di livello secondario, come una continua spinta a realizzarci pienamente, ad accettarci così come siamo, ad essere capaci di vivere esperienze profonde e rapporti umani positivi, a sentire di essere diventati ciò che siamo in grado di diventare.

E’ comprensibile che ci sentiamo appagati quando riusciamo a soddisfare le nostre esigenze del momento e riusciamo ad intravedere quel gradino successivo che potrebbe attenderci. Ed è quindi inutile rammaricarci ed inveire verso chi “ha di più di noi” e non è felice lo stesso.

Quale significato può avere, dunque, parlare di successo e autostima (che fanno parte del quarto gradino della scala) a chi non ha nemmeno una casa (secondo gradino) o a chi non ha sempre da mangiare (primo gradino)? Non c’è da stupirsi se in questi casi non ci si capisce affatto. E non c’è da stupirsi nemmeno quando la proposta di un modello sociale, visto da un gradino troppo alto, ad un’altra realtà sociale che lotta per bisogni di livello diverso, possa portare a conflitti più o meno importanti. Un esempio? L’esportazione del nostro modello culturale, fatto di edonismo ed eudemonismo, tecnologie avanzate, carriere lavorative, politica, verso società che lottano tuttora contro la fame e le malattie. Pensiamo davvero che possa essere efficace e funzionale? Pensiamo davvero che siano gli “altri” ad essere ingrati nei nostri confronti?

Per ognuno di noi, mi sento di proporre una piccola cosa: quando guardiamo agli altri, siamo consapevoli di essere diversi, anche se non sappiamo quanto e come, di avere bisogni diversi e sicuramente percezioni diverse.

Si tratta solo di un piccolo passo, eppure la sua portata è inimmaginabile. Cosa ne pensate?

Comprendere la frustrazione

Le situazioni che percepiamo, o meglio valutiamo, come negative sono sempre e solo da combattere, ignorare, evitare? O c’è dell’altro, magari prezioso per noi?

Ad esempio, tutti consideriamo come un grosso problema il momento in cui ci sentiamo frustrati. Si tratta di un’emozione dalle forti risonanze di difficile gestione. Ma perché ci sentiamo frustrati? Che cos’è la frustrazione?

Proviamo ad avere un approccio osservativo, senza paura.  Il perchè è importante almeno quanto il come e il quando. Dobbiamo soltanto liberarcene? Possiamo gestirla? Possiamo addirittura esplorarla ed accoglierla, come una lettera da aprire?

La frustrazione è la delusione per il mancato appagamento di un’aspettativa. E’ il sentimento di chi ritiene che il proprio agire sia stato o sia vano.

Vi siete mai sentiti in ansia in situazioni organizzative in cui in apparenza non vi sono elementi stressogeni né cause scatenanti? L’ansia ci sta avvisando che siamo vulnerabili alla frustrazione. Perché? Non è detto che lo scopriamo con facilità, nè tantomeno che siamo disposti a vedere ed accettare di vedere ciò che non quadra. Questa è una potenziale trappola che dovrebbe farci suonare un campanello di allarme.

Invece di gettare via la lettera, proviamo ad aprirla? Siamo disposti a guardarci dentro, a soffermarci sulla negatività? Non spaventiamoci, probabilmente non è così oscura e terrificante come temiamo. E sicuramente qualcosa da dirci ce l’ha.

C’è un corso specifico nel mio Catalogo Personale che affronta tale argomento, l’uso potenziale delle situazioni negative. Scrivimi se può interessarti.

Contributi ed esperienze sull’innovazione

Alcuni contributi interessanti:

Innovation interviews – part one – by Liam Brennan

Le Pixel Buds di Google – La Stampa – 07/10/2017

Jerry Kaplan, odio i social media, sono una distrazione

Intelligenza artificiale: Guida al futuro prossimo

Innovazione corsa ad ostacoli?

A chi serve parlare di team building (1)?

Durante un corso di team building, un partecipante, all’apertura della giornata formativa, disse: “Io sono qui perché mi hanno detto di venirci, ma questo corso andrebbe seguito dai nostri manager, non da noi, e da me in particolare”.

Il formatore sorrise e non rispose subito. Osservò il gruppo di persone che erano riunite in quella stanza. Poi disse: “Oggi noi siamo un gruppo e siamo tutti uguali qui, in questo momento, al di là dello status, del ruolo e delle mansioni che ricopriamo nell’organizzazione”.

Poi proiettò una citazione.

“La teoria generale dei sistemi ci spiega che qualsiasi cambiamento in un oggetto del sistema è interdipendente ad ogni parte del sistema stesso. Ogni parte, per quanto piccola, ha il potere di influire sul comportamento dell’insieme” (Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni)

Il partecipante non intervenne. Forse era vero, che non avrebbe voluto essere lì, ma la sua presa di posizione era soltanto la punta dell’iceberg, al di sotto si muoveva un mondo di interessi, valori e bisogni, che avevano plasmato la superficie.

C’è qualcosa di affascinante ed importante per il nostro futuro nell’indagare e comprendere quella parte meno visibile del nostro comportamento. E qualsiasi spunto di riflessione vogliamo far emergere dentro di noi e dentro il nostro gruppo di appartenenza, che sia la rete di comunicazione, la diversità, la coesione, la motivazione, la cultura di gruppo, sappiamo che sarà in grado di innovare, anche fosse solo un piccolo passo, anche fosse solo un lumicino nel buio. E l’effetto non è mai insignificante.

C’è un corso specifico nel mio Catalogo Personale che affronta tale argomento. Scrivimi se può interessarti.

I big data senza i nostri pregiudizi

Tratto da La Stampa 11/10/2016: “L’intelligenza artificiale che aveva previsto la vittoria di Donald Trump”

I big data sono un oceano prezioso di informazioni, difficili da cogliere nella loro complessità, ma davvero importanti per un’analisi sociale che voglia avere caratteristiche di modernità.

Che dire? I nostri bias e le nostre euristiche di giudizio influiscono davvero, obnubilano e distorcono la nostra capacità di valutazione obiettiva, anche quando ci occupiamo di analisi dei dati . E’ normale che sia così, la nostra percezione e la nostra interpretazione sono ovviamente soggettive e impattano sulla nostra disattenzione selettiva, ma esserne consapevoli ci aiuta a sviluppare una mente aperta e critica. Il nostro “pilota automatico” ci aiuta in molti casi, ma dobbiamo tenere sempre presente che esiste, che non ne siamo immuni e che possiamo e dobbiamo spegnerlo, ogni tanto.

Coltivare costantemente il dubbio non è un puro rimuginare ed elucubrare, è fonte di spirito libero e, quindi, di innovazione.

“Ci sono tecniche specifiche per il change management”

Non c’è nulla che abbia validità universale, per le persone e per le organizzazioni, l’utilità delle tecniche consiste nell’ispirarci ed aiutarci a riflettere, il resto dobbiamo metterlo noi.

“Se vuoi cambiare, cambia la tua identità”

L’identità è un argomento delicato, la costruiamo insieme agli altri, è indispensabile per la nostra stessa coerenza e per la storia della nostra vita, non si cambia così facilmente e non è affatto detto che cambiarla sia una scelta saggia; lasciamoci aperti, lasciamo i nostri schemi non troppo rigidi, è la cosa migliore che possiamo fare per cambiare.

Il gabbiano Jonathan Livingstone

Ero un ragazzo quando mi regalarono questo libro, “Il gabbiano Jonathan Livingstone” di Richard Bach. Lo lessi, con l’incanto di un adolescente e la semplice capacità di sognare che non ha età. Questo libro mi cambiò la vita per sempre. Oggi comprendo quanto sia pura libertà, pura innovazione, un racconto senza tempo, qualcosa che sarà sempre valido ed importante per ogni essere umano, che ascolti il suo gabbiano Jonathan Livingstone oppure no.

Come scrive Richard Bach:

Al vero gabbiano Jonathan Livingstone, che vive nel profondo di noi tutti

L’innovazione non ha che fare necessariamente con la tecnologia, l’invenzione, ciò che non è mai stato visto. A volte è straordinariamente innovativo ciò che appartiene al passato, più o meno lontano, in grado di mandarci un messaggio che la nostra cultura non contempla, la nostra quotidianità non mette a fuoco, le innumerevoli voci che gridano su ogni media si dimenticano, volutamente o no, di dirci.

Jonathan è l’immagine più autentica e limpida dell’innovazione e del cambiamento. In essa è possibile trovare in sintesi tutte le dinamiche e le proprietà più profonde che contraddistinguono l’innovazione: saper guardare oltre il comune sguardo, avere coraggio, sentirsi spesso soli, cercare e trovare soluzioni imprevedibili, sognare, provare rabbia iniziale ma anche profondo desiderio di condivisione, coinvolgersi nella meraviglia di cambiare, comprendere il valore della diversità e l’influenza della minoranza. Tutto in un racconto dalla semplicità disarmante.

Lasciatevi portare in volo da queste parole. Ciò che sentirete dentro di voi vi coinvolgerà, come pochi libri sanno fare.

Il film che ne seguì, nel 1973, non è da meno, secondo me. Emozioni e profondità con la stessa purezza del libro.

 

IL GABBIANO JONATHAN LIVINGSTONE con le bellissime fotografia di RUSSEL MUNSON

Il Gabbiano Jonathan Livingston – Jonathan Livingston Seagull

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