Era il 1954 quando Abraham Maslow concepì il concetto di Gerarchia dei Bisogni. Questo psicologo statunitense, scomparso nel 1970, è uno dei più citati psicologici della storia, proprio a causa di questa sua teoria che ha avuto così tanta eco.
Maslow, nel suo volume Motivazione e personalità, teorizzò che esiste una scala dei bisogni degli esseri umani. Ogni gradino di questa scala è propedeutico al successivo e non è possibile raggiungere un livello superiore senza aver prima soddisfatto i bisogni del livello più basso.
Si tratta di una teoria che ha ormai oltre 60 anni e che è stata rivisitata in molti modi, sviluppata secondo diverse chiavi di lettura, modernizzata da diversi autorevoli studiosi. Però, nella sua “semplicità” ed essenza, ci fa capire moltissimo del nostro mondo. Ed è innovativa, anche nella sua vetustà apparente.
Sentiamo spesso dire, ad esempio, che “si era più felici quando si stava peggio”. Al netto dei risvolti nostalgici e delle peculiarità della nostra memoria, con i suoi meccanismi di disattenzione selettiva, io credo che la scala di Maslow risponda brillantemente a questa affermazione.
Quando i nostri bisogni sono quelli della sopravvivenza o della sicurezza (i primi due gradini della scala), la loro soddisfazione ci fa sentire felici. In quella condizione ci sembra impossibile, per una persona che non debba preoccuparsi più delle esigenze fondamentali, non sentire benessere. D’altro canto, soddisfatti quei bisogni, ne sorgono altri, di livello secondario, come una continua spinta a realizzarci pienamente, ad accettarci così come siamo, ad essere capaci di vivere esperienze profonde e rapporti umani positivi, a sentire di essere diventati ciò che siamo in grado di diventare.
E’ comprensibile che ci sentiamo appagati quando riusciamo a soddisfare le nostre esigenze del momento e riusciamo ad intravedere quel gradino successivo che potrebbe attenderci. Ed è quindi inutile rammaricarci ed inveire verso chi “ha di più di noi” e non è felice lo stesso.
Quale significato può avere, dunque, parlare di successo e autostima (che fanno parte del quarto gradino della scala) a chi non ha nemmeno una casa (secondo gradino) o a chi non ha sempre da mangiare (primo gradino)? Non c’è da stupirsi se in questi casi non ci si capisce affatto. E non c’è da stupirsi nemmeno quando la proposta di un modello sociale, visto da un gradino troppo alto, ad un’altra realtà sociale che lotta per bisogni di livello diverso, possa portare a conflitti più o meno importanti. Un esempio? L’esportazione del nostro modello culturale, fatto di edonismo ed eudemonismo, tecnologie avanzate, carriere lavorative, politica, verso società che lottano tuttora contro la fame e le malattie. Pensiamo davvero che possa essere efficace e funzionale? Pensiamo davvero che siano gli “altri” ad essere ingrati nei nostri confronti?
Per ognuno di noi, mi sento di proporre una piccola cosa: quando guardiamo agli altri, siamo consapevoli di essere diversi, anche se non sappiamo quanto e come, di avere bisogni diversi e sicuramente percezioni diverse.
Si tratta solo di un piccolo passo, eppure la sua portata è inimmaginabile. Cosa ne pensate?